Palazzo Marigliano

Indirizzo: via San Biagio dei Librai, 39

Metro linea 1: stazione Dante-stazione Toledo-stazione Università

Orari di apertura al pubblico: aperto al pubblico in alcune occasioni o nelle Giornate del FAI.

Sul Decumano Inferiore greco-romano si erge un imponente palazzo che, nelle parole dell’architetto e storico dell’architettura Roberto Pane, “vanta la più elegante facciata rinascimentale di Napoli”, caratterizzata da tre livelli di ordini architettonici scaditi secondo un’alternanza di marmo bianco e piperno. Palazzo Marigliano o Palazzo di Capua fu costruito tra il 1512 e il 1513 per volere di Bartolomeo di Capua, principe di Riccia e conte di Altavilla, che ne affidò il progetto all’architetto cosentino Giovanni Donadio, detto il Mormando, autore in quegli anni diversi pregevoli edifici in tutta Napoli. Il palazzo divenne poi proprietà dei conti di Saponara e, in seguito, della famiglia Marigliano, nel 1759, quando fu acquistato da Saverio Marigliano del Monte, come ricorda lo stemma inserito nell’iscrizione collocata sopra il portone d’ingresso.

L’edificio è tipica testimonianza della predilezione della nobiltà napoletana a stanziarsi nel centro antico, e ciò soprattutto in epoca aragonese; questa preferenza cesserà, nel corso del XVII secolo, con l’apertura della nuova strada, via Toledo, voluta dal viceré spagnolo Pedro de Toledo, e dai nobili scelta come luogo di elezione per le loro dimore.

Tra Sette-Ottocento il palazzo subì sostanziali modifiche che comportarono anche la realizzazione del cortile con l’apertura di alcune botteghe al suo interno.

Tutt’oggi, varcata la soglia del portone, due lapidi richiamano l’attenzione del visitatore: la prima rievoca la figura di Costanza di Chiaromonte, moglie del re Ladislao di Durazzo, incoronato re proprio durante le nozze, che fu ripudiata dopo soli due anni perché la madre, vedova di Manfredi di Chiaromonte, a Palermo, conduceva vita dissoluta. Costanza andò sposa, in seconde nozze, di Andrea di Capua, che scelse questo palazzo come sua dimora nel XV secolo.

La seconda lastra ricorda la “congiura di Macchia”, del 1701, che prende il nome da Gaetano Giambacorta, principe di Macchia.

Ordita nei sotterranei del palazzo dalla nobiltà napoletana nel tentativo, fallito, di rovesciare il governo vicereale spagnolo a sostegno degli Asburgo d’Austria.

Attraverso il giardino, posto nel vasto atrio, si raggiunge una doppia rampa di scale che conduce agli appartamenti: nel piano nobile, scandito da cinque finestre con cornici marmoree e architravi, si legge la scritta “memini”, verbo latino che significa “ricordarsi, rammentarsi, avere in mente” e che invita appunto alla conservazione e al rispetto della memoria.

Sul soffitto del piano nobile si ammirano i resti dell’affresco di Francesco De Mura, del 1750, raffigurante il gesto eroico del colonnello Raimondo di Sangro principe di Sansevero – chimico, filosofo, scienziato e alchimista, inventore di macchine idrauliche, pirotecniche, marchingegni vari e altre sensazionali invenzioni, famoso per la meravigliosa e suggestiva cappella che porta il suo nome – durante la battaglia di Velletri di qualche anno prima. Attualmente, il piano nobile è sede della Soprindentenza Archivistica della Regione Campania.

In altri vani sono ancora visibili diversi elementi della dimora rinascimentale, come le travi lignee e alcune porte decorate, oltre agli affreschi di Giovan Battista Maffei, ben conservati sia nel primo ambiente del secondo piano sia nella cappella gentilizia.